Perché noi donne (soprattutto dopo i 40) facciamo fatica a metterci al primo posto

(E come uscire dal circolo del dovere)

C’è una frase che ti torna nella testa, ogni tanto — lo so, perché è capitata anche a me:

«Non c’è spazio per me».

Non lo dici ad alta voce, ma lo senti.
E lo senti in quei momenti in cui l’agenda trabocca, in cui ti svegli con la mente a mille e la sera ti chiedi dove sono finita tu.
Mettiamo gli altri al primo posto: il lavoro, i figli, i genitori, i doveri.
E ci nascondiamo dietro una corazza di autonomia, forza, “ce la faccio sempre”.

Ma quella corazza molte volte cela una paura: paura di chiedere, paura di deludere, paura di non essere accettate se diciamo “io prima di tutto”.

In questo articolo esploriamo perché questa dinamica è così comune nelle donne, particolarmente in chi ha superato i 40, e come possiamo iniziare a vivere con più leggerezza, autenticità e spazio per noi stesse.


Le radici culturali e psicologiche del “non disturbare”

1. Il condizionamento generazionale

Chi è cresciuta negli anni ’70 e ’80 ha respirato messaggi impliciti (e spesso espliciti) che dicevano: “prima gli altri”.
Il modello femminile che molti hanno imparato è quello dell’amore sacrificato, della madre che non chiede, dell’angelo del focolare che dà senza chiedere.
Questo modello è profondamente radicato nei ruoli di genere trasmessi attraverso decenni.

Una ricerca recente sull’“invisible burden” del carico mentale in Italia ha rivelato che le donne tendono a sobbarcarsi la responsabilità organizzativa e il coordinamento familiare, generando affaticamento emotivo e sensazione di non farcela (studio “Beyond Time: Unveiling the Invisible Burden of Mental Load”arXiv.
In sostanza: non è solo la quantità di cose da fare, è il peso emotivo di pensarle, anticiparle e preoccuparsi che siano fatte.

2. Il carico non remunerato e la cura invisibile

Se guardiamo i dati europei, la cura informale (prendersi cura di anziani, familiari, gestione domestica non retribuita) pesa in modo sproporzionato sulle donne.
Uno studio su 31 paesi europei proietta che il carico di cura familiare crescerà fino al 2050 del 49,7%, e già oggi le donne sopportano la maggior parte di questo peso PubMed+1.
In Italia, l’80,3% delle donne che svolgono ruoli di caregiver dichiara stanchezza cronica, il 63,2% dicono di non riposare abbastanza, il 45,3% segnala sintomi depressivi MDPI.

Questi carichi invisibili — non riconosciuti, non pagati, raramente condivisi — incidono sulla salute mentale e sul senso di sé: ti senti utile, ma al contempo svuotata.

3. La sensibilità emotiva e il senso di colpa

Le donne, secondo numerosi studi psicologici, tendono a provare più spesso senso di colpa, specie in ambito relazionale e familiare.
Una ricerca (Kenemore) ha mostrato che le donne dichiarano livelli maggiori di “adaptive guilt” rispetto agli uomini, legati a empatia e riflessione morale provost.utsa.edu.
Questo non significa che le donne siano “più deboli” — è semplicemente una differenza di socializzazione emotiva: impariamo da giovani che “farsi sentire” equivale a egoismo, e che il colpevolizzarsi è una specie di sottile disciplina interiore.

Un altro studio indica che gli stereotipi di genere interiorizzati (attitudini tradizionali verso la maternità, ruoli domestici) sono associati con rimpianti e benessere soggettivo ridotto nelle donne che spesso dicono “sì” invece di esprimere bisogno personale SpringerLink.


La mia storia: quando io stessa ho nascosto il mio spazio

Anni fa, correvo continuamente.
Ogni giorno sembrava un elenco infinito di impegni e “doveri”.
Ero convinta che non esistesse tempo per me, che chiedere spazio equivalesse a tradire qualcuno.

Ma le giornate piene, quelle che sembravano “normali”, mi riportavano dolorosamente al mio passato:
momentI in cui mi sentivo meno, spenta, stanca fino alle ossa, con una vocina interna che mi urlava: “Non puoi. Non adesso.”

Poi un giorno ho visto il mio calendario:
due o tre giorni con spazi vuoti.
Ho tirato un sospiro, e ho capito — con dolore e sollievo insieme — che ero cambiata.
Che quel vuoto era diventato una scelta.
Era il momento di dare a me stessa lo spazio che avevo sempre negato.

Quando penso a quel periodo, vedo che dietro ogni “sì” c’era il timore di essere meno amabile se avessi detto “no”.
Dietro ogni sacrificio c’era la paura che se avessi osato mettermi in primo piano, il mio valore sarebbe stato messo in discussione.

Ma oggi so che non è così.


Come trasformare la corazza in libertà: 4 passi concreti

Ecco alcuni passi che tu, come me, puoi iniziare oggi:

1. Riconosci il condizionamento

Il primo atto liberatorio è nominare la ferita.
Riconosci che molti sì che diciamo non nascono da scelta autentica, ma da un condizionamento.
Puoi riflettere: Quali sì dico per evitare il senso di colpa?

2. Ricostruisci il confine interiore

Non serve un muro.
Serve un confine gentile: un no o un non adesso detto con rispetto.
Un piccolo “spazio jolly” in agenda, dove non sei tenuta a nulla.

3. Integra spazio per la curiosità

Non ignorare le cose che ti nutrono: leggere, imparare, esplorare.
La curiosità, per me, è stata una via per riscoprire i miei talenti nascosti.
Se vuoi, puoi leggere anche questo articolo del mio blog che ho scritto proprio su questo tema:
“Donne e sindrome della crocerossina” — dove approfondisco perché spesso ci sacrifichiamo senza accorgercene.

4. Sostieniti con una rete di supporto

Non è debolezza chiedere aiuto, anzi.
Uno studio recente mostra che un forte supporto sociale può mitigare l’impatto negativo del carico emotivo associato ai ruoli di cura Frontiers.


Guardare avanti con leggerezza

Non ti sto dicendo che sarà facile o rapido.
Ma posso affermare con certezza:

Quando inizi a dire “io esisto, io merito spazio”, il mondo intorno comincia a rispondere.

Oggi io cammino con più leggerezza, con scelte più consapevoli, con momenti miei che non devo giustificare.
E continuo a imparare, ad adattarmi, a concedermi il permesso di essere multidimensionale.

Se questo articolo ti ha toccata, posso aiutarti passo a passo a rimetterti al centro.

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