​Tutta questione di rimbalzo?

Chiunque gestisca un sito internet è in genere interessato a comprendere che tipo d'interesse e attività esso generi da parte degli utenti: come si muovono tra le pagine, quali pagine hanno più successo, quanti utenti accedono settimanalmente...

Chiunque gestisca un sito internet è in genere interessato a comprendere che tipo d'interesse e attività esso generi da parte degli utenti: come si muovono tra le pagine, quali pagine hanno più successo, quanti utenti accedono settimanalmente...
Strumento cardine per questo tipo di analisi, e più in generale in caso di compagne di Digital Marketing, è Google Analytics, tool d'eccellenza per chi si occupa di SEO. Grazie a esso è, infatti, possibile analizzare diversi parametri chiave e mettere in atto campagne di marketing coscienziose.
Tra gli indicatori da monitorare, uno tra i più chiacchierati è certamente la frequenza di rimbalzo (bounce rate), indicata da Analytics come "percentuale di sessioni di una sola pagina, ovvero sessioni in cui gli utenti abbandonano il sito dalla pagina da cui sono entrati, senza interagirvi".
Dalla definizione potrebbe sembrare che il dato indichi la percentuale di utenti che abbandona il sito dopo pochi secondi, in realtà, come spiega il prof. Andrea Testa, questo pensiero, molto diffuso, è spesso errato.
Analytics, infatti, di base non conteggia l'effettivo tempo di permanenza sulla landing page, ma inizia il calcolo nel momento in cui accade un "evento", cioè dal momento in cui l'utente compie un'azione che lo strumento riconosce come d'interesse (ad es. clicca su un'altra pagina del sito). Qualsiasi attività fatta sulla prima pagina di accesso, quindi, di default, non è registrata e, di conseguenza, il bounce rate segnalato risulta spesso gonfiato.
Creare molti eventi (ad es. download di un pdf o scrollo della pagina) sulla landing page, e impostare Analytics in modo che li riconosca come tali e pertanto inizi il conteggio, è la prima azione da porre in essere se si desidera ottenere dati realmente utili per le azioni future. Tralasciare questa accortezza impedisce, infatti, all'amministratore di conoscere la frequenta di rimbalzo reale, aumentando le probabilità di prendere scelte errate sul perseguimento dei propri obiettivi o addirittura di sprecare parte del budget investito in marketing digitale.
Conoscere l'esatto valore del bounce rate permette di comprendere se gli obiettivi predefiniti possono essere soddisfatti e se occorrono modifiche nell'outline del sito. Tra i molti fattori che contribuiscono a un elevato bounce rate, infatti, vi sono: difficoltà di usabilità, disposizione errata delle informazioni nella landing page o presenza di bug di progettazione.
La frequenza di rimbalzo è dunque un KPI fondamentale nell'analisi dell'obiettivo di marketing e spesso non conta il valore in sé, ma come questo si modifica nel tempo in funzione delle modifiche apportate al sito. Più basso è il bounce rate e alto il tempo di permanenza, maggiori saranno le probabilità che gli obiettivi di marketing vengano soddisfatti. Che questi riguardino campagne di awareness, interesse o consideration, il dato è basilare per definire la strategia futura.
Tutta questione di rimbalzo dunque? Probabilmente sì, ma di quello giusto.



Commenti

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Andrea Genovese
Pubblicato il 29.05.2015

Interessante.