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La cultura della crisi prepara "psicologicamente" le aziende a fronteggiare emergenze riducendo le conseguenze legate all'indebolimento della propria immagine.

Ogni impresa ha una sua identità definita, quell'insieme di valori che la caratterizzano e, per far sì che questi vengano adeguatamente trasmessi sia all'interno che all'esterno, occorre lavorare sull' immagine, il cui scopo é quello di creare cornici di senso dove contestualizzare le proprie azioni e creare aspettative negli individui, assicurandosi che ci sia coerenza tra l'immagine percepita e quella progettata.

Analizzando i trend della comunicazione corporate in situazioni di crisi e la realtà mediatica odierna, rispetto al passato ci troviamo davanti ad un doppio spartiacque: dal lato impresa, abbiamo assistito negli ultimi 15 anni all'avanzare di una vera e propria "cultura della crisi", una strategia preventiva latente che fornisce mezzi e team specifici in grado di contrastare eventuali ripercussioni in caso di crisi e, dall'altro, una rivoluzione nel management della crisi post avvento dei media digitali.

Come ci fa notare il Prof. Roberto Grandi, se da un lato la cultura della crisi prepara "psicologicamente" le aziende a fronteggiare emergenze riducendo le conseguenze legate all'indebolimento della propria immagine, dall'altro la digitalizzazione della comunicazione implica tempi di risposta brevi e gestione trasparente della crisi, altrimenti si rischia di dar vita a reazioni a catena in cui, da un problema iniziale, se ne creano degli altri.

E' quello che è successo alla Nestlé nel 2010, quando si è trovata a fronteggiare un pubblico j'accuse di Greenpeace sulla questione della distruzione delle foreste pluviali a causa dell'estrazione dell'olio di palma.


All'inizio Nestlé ha comunicato attraverso i canali ufficiali la sua preoccupazione e che si sarebbe dissociata dalle imprese locali che non rispettassero gli standard di estrazione sostenibile del prodotto.

Un atteggiamento "da manuale", una reazione rapida e trasparente. I problemi sono sorti in un secondo momento quando, a fronte di un un numero sempre crescente di commenti e comportamenti negativi da parte della community di Facebook, Nestlé ha iniziato a rispondere sgarbatamente agli utenti generando una nuova crisi: il malcontento per la mancata etichetta dell'azienda nel rispondere agli utenti.



Se l'é cavata meglio La Redoute, colosso dell'e-commerce francese quando, nel 2012, un utente ha scovato un uomo nudo in una delle foto del catalogo prodotti per bambini. La community ha gridato allo scandalo, generando, tra l'altro, anche ironia sull'accaduto. La Redoute ha saputo trasformare questo minus in un plus: dopo le scuse, l'azienda ha deciso di lanciare un contest, sulla base del crowdsourcing: l'utente che avesse scovato più errori nelle foto del sito, avrebbe vinto un total look, trasformando il tutto in un'efficacissima operazione di marketing a costo zero.

Questa vicenda é emblematica di quanto l'avvento dei mezzi di comunicazione digitali abbia profondamente modificato le dinamiche di interazione impresa-comunità: sicuramente più semplici e immediate ma che richiedono ora più che mai prontezza, efficacia, trasparenza, soprattutto in momenti di crisi, altrimenti si rischia di distruggere in poco tempo il rapporto di fiducia impresa-consumatore costruito nel tempo.

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