Il futuro nella pubblicità è la pubblicità del futuro

Migranti, nuove famiglie, consumatori senza denaro, anziani: come cambiano gli italiani e la loro rappresentazione nei media

"Questo è quello che si vede da giovani: si vede tutto vicinissimo; quello è il futuro... E questo è quello che si vede da vecchi: si vede tutto lontanissimo; quello è il passato."

"Youth" (regia di Paolo Sorrentino)

In principio fu il Carosello. Poi venne la pubblicità. E oggi? Quali modelli pubblicitari si profilano all'orizzonte in una società che cambia vorticosamente, proprio come un carosello, divertente giostra per bambini? A questa domanda ha provato a rispondere Fausto Colombo, Direttore del Dipartimento di Scienze della Comunicazione e dello Spettacolo all'Università "Cattolica" di Milano. Il suo intervento ha aperto l'"open class" organizzata la scorsa settimana da Upa nelle Gallerie d'Italia del capoluogo lombardo nell'ambito del corso di alta formazione in "Comunicazione d'azienda nella network society".

Il termine pubblicità deriva evidentemente da "pubblico", e chi è il pubblico se non la società nel suo insieme? Il pubblico siamo noi, e noi stiamo cambiando. I pubblicitari sembrano sempre aver colto in anticipo i mutamenti sociali, ancor prima dei colleghi sociologi. Basti pensare alla novità rappresentata dal movimento "hippie" negli Anni Settanta, gli Anni della Vespa, gli Anni del boom economico, gli Anni dell'ottimismo e del consumismo senza freni: l'Italia si accorge dei giovani e i pubblicitari si accorgono che i giovani sono diventati una categoria merceologica. Non ci si scandalizzi allora se, in barba alla retorica sulle politiche di immigrazione e accoglienza, qualcuno stia accorgendosi che proprio i migranti stanno assurgendo a nuovo pubblico cui indirizzare campagne pubblicitarie. Il che non è esclusivamente negativo, perché la pubblicità può contribuire positivamente alla crescita civile: una certa indipendenza (sessuale, vitale nella sua accezione più piena) i giovani se la conquistarono anche grazie al futuro progettato dalle pubblicità. Perciò oggi questa è anche una opportunità, magari per sfatare luoghi comuni.

Ad esempio, ad un'attenta analisi dei dati Eurostat e Istat, i primi immigrati siamo noi: sono 4 milioni gli italiani sparsi in tutto il mondo, lontani dal Belpaese; gli immigrati sul suolo nazionale, invece, incidono "soltanto" per l'8,1% sulla popolazione italiana totale. E la casalinga di Voghera – fortunata, ma pure poco gentile categoria "sociologica" fino a qualche decennio fa – con tutta probabilità viene da un altro Paese della Terra: il 53% degli stranieri che arrivano sul suolo italico in cerca di fortuna, difatti, sono donne. Il tasso di crescita della popolazione italiana si deve in particolar modo alla nascita di bambini da genitori immigrati piuttosto che da nuovi arrivi; altrimenti la percentuale sarebbe negativa. Insomma, noi siamo già una società multiculturale, ma i pubblicitari e i media del nuovo millennio non se ne sono accorti del tutto. Non si sono accorti, peraltro, di una opportunità di business.

Stesso dicasi per le "nuove famiglie". Anche in questo caso la discussione in Italia è apertissima e non priva di strumentalizzazioni, politiche e non solo. Il passaggio dalla famiglia patriarcale a quella nucleare (senza nonni, per intenderci) è già avvenuto da un pezzo, ma oggi assistiamo ad una pluralità di modelli familiari. La cause sono le più diverse, da sociali (maternità e paternità tardive) a economiche (precarietà) a culturali (laicizzazione). Si insiste spesso sulla questione delle coppie omosessuali, eppure esse non sono che una minima parte dei molti modelli già compresenti: famiglie allargate, famiglie ricostituite non coniugate, famiglie monocomponenti. Di certo l'unione omosessuale è quella più facilmente attaccabile sotto il profilo valoriale.

E i giovani degli Anni Settanta che fine hanno fatto? Sono i "consumatori senza denaro". Ma si può spendere con il portafogli vuoto? Nonostante l'incremento delle diseguaglianze e della diffusione di "nuovi poveri" (secondo l'indice di GINI 1 italiano su 4 è a rischio povertà), si evince una attitudine allo scambio come nuova forma di lifestyle. Si fa sempre più spazio la sharing economy[1], quel "consumo collaborativo" volto a promuovere il riuso piuttosto che l'acquisto e l'accesso piuttosto che la proprietà. Permane, tuttavia, una domanda: il gratis è davvero sempre positivo?

Di certo oggi sono consumatori con denaro i più anziani, con la tendenza a considerarli non in quanto persone che tornano ad essere giovani, ma che più semplicemente tornano a vivere. È la "Rivoluzione della Longevità", come ha affermato nell'open class il Dott. Ettore Bologna, Responsabile del Servizio Medico della Fondazione Ferrero. In più di cent'anni l'aspettativa di vita è cresciuta più che negli ultimi 5 secoli e tra 10 anni gli ultrasessantacinquenni saranno il doppio di oggi. Insomma, se un tempo era privilegio di pochi, la longevità è ora il destino dei più: i nonni sono già in numero superiore di 2,5 milioni ai nipoti ventenni, ma tra vent'anni i bisnonni ultraottantenni saranno più dei pronipoti di 10 anni. Alla Fondazione Ferrero è stata sottoscritta persino una Carta di Alba per favorire il cosiddetto "invecchiamento di successo". Alla base ci sono questi principi: socialità, spiritualità, longevità, benessere e welfare. Chi non li condividerebbe?


[1] "Innovazione e creatività nell'era digitale. Le nuove opportunità della Digital Sharing Economy", Lamborghini Bruno, Stefano Donadel, Franco Angeli, 2010

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