Cerco un centro di gravità permanente: il potere della marca nella brand-society

Cambia, crucialmente, la funzione che l'individuo della post-modernità assegna al consumo, nuovo "fulcro" della contemporaneità secondo Ritzer, sociologo dei consumi e padre del "prosumer".

Erano soltanto gli anni '70 quando l'identità sociale era definita, una volta per tutte, da un titolo, una professione, un posto specifico nel mondo. Oggi che la società è liquida e i contorni sociali si sfumano, cosa resta delle modalità di auto-definizione? "Consumo, dunque sono" intuisce, polemicamente, Bauman.

Da qualunque prospettiva si voglia inquadrare il fenomeno, l'acquisto di prodotti e servizi nella nostra vita quotidiana sta tuttora subendo un enorme mutamento, non solo nelle pratiche concrete, ma nello stesso processo di significazione simbolica.

Cambia, crucialmente, la funzione che l'individuo della post-modernità assegna al consumo, nuovo "fulcro" della contemporaneità secondo Ritzer, sociologo dei consumi e padre del "prosumer".

Non è un caso che una letteratura scientifica sul consumo sia emersa soltanto attorno alla fine degli anni Sessanta, quando i paradigmi attorno a cui si erano costruite le certezze dell'identità industriale iniziavano a vacillare. Se tutto ciò che prima era fisso - il lavoro, la città, le biografie personali – non conforta più, occorre fissare questa dinamicità in modo tangibile e definibile.

Come spiega il Prof. Bernard Cova, il driver dell'esistenza degli individui è la "struggle for recognition", in cui la professione è soltanto un mezzo per acquisire le risorse necessarie a definire – altrove – il proprio essere e benessere. E' la"brand-society", in cui, per citare Kornberger, "brands have replaced religions as the source of meaning."

Se l'economia e il marketing tradizionali restano ancorati alla razionalità della "consumption", nel senso anglosassone del termine, "esaurimento" del bene in sé, occorre piuttosto focalizzarsi sulla forte dimensione emozionale che investe le pratiche di purchasing.

L'acquisto si spinge ben oltre il prodotto: ciò a cui aspiriamo è l'idea che esso veicola, la narrazione attorno alla marca, l'universo di simboli e attributi che solo tramite il possesso della cosa sono trasferiti al consumatore , – e solo tramite la condivisione, fisica o virtuale con una community, una "microcultura"– soddisfano il bisogno di sentirsi parte integrante di un clan (basti pensare a quello che rappresenta tutt'oggi per il mondo della finanza dopo quasi quarant'anni la calcolatrice HP-12C).


Da semplice sigillo di garanzia, la marca è sempre meno funzionale e sempre più iconica, cult, simbolo di un'esperienza di partecipazione, testimone di una passione. Si infiltra nelle pratiche quotidiane e nel linguaggio che le descrive, fino a "verbizzarsi" (you don't just use the vacuum to clean the floor, you Hoover the floor). L'impatto del brand è talmente potente che la stessa categoria di "soddisfazione" si rende obsoleta: si tratta di un più intenso enjoyment che se negato, o deludente, può arrivare a estreme manifestazioni di impeto: nel brand, proiezione di una certa idea del self, il consumatore investe infatti molto più che il semplice denaro.

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