Memorie familiari: quello che ci portiamo addosso

La pedagogia ha riflettuto lungamente sul valore della memoria familiare, scardinandone la parvenza di un costrutto semplice, composto da eventi che si sedimentano, uno addosso all’altro, a formare cumuli di ricordi da trasferire tout court alle generazioni future.

La pedagogia ha riflettuto lungamente sul valore della memoria familiare, scardinandone la parvenza di un costrutto semplice, composto da eventi che si sedimentano, uno addosso all’altro, a formare cumuli di ricordi da trasferire tout court alle generazioni future.

Dimostrazione di una rivalutazione profonda di questo tipo di memoria è l’ampio utilizzo di una metodologia come quella autobiografica all’interno dei contesti formativi, a partire dalle elaborazioni di Duccio Demetrio e dei suoi collaboratori.

Riflettere sulla propria esistenza, solleticare una memoria sopita, dare il giusto rilievo alle vicende affettive ed emotive del vissuto, sembrerebbe avere un enorme potenziale di autoformazione e di trasformazione, avviando riflessioni critiche e bellissime fioriture di ricerca di senso riguardanti la propria esperienza di vita.
Una riflessività preziosa, capace di apportare cambiamenti benefici nella vita di chi la sperimenta.

Ma cosa si ricorda, quando si ricorda? Quali possono essere considerate memorie generative, su cosa dobbiamo riflettere nel porre in essere l’educazione, affinché rientri nella questione ricordo come fonte di bellezza, e non di cruccio?

C’è una nota poesia di Doroty Law Nolte, si chiama “I bambini imparano quello che vivono” e recita in questo modo:

Se il bambino vive nella critica, impara a condannare.

Se vive nell’ostilità, impara ad aggredire.

Se vive nell’ironia, impara la timidezza.

Se vive nella vergogna impara a sentirsi colpevole.

Se vive nella tolleranza impara ad essere paziente.

Se vive nell’incoraggiamento, impara la fiducia.

Se vive nella lealtà, impara la giustizia.

Se vive nella disponibilità, impara ad avere fede.

Se vive nell’approvazione, impara ad accettarsi.

Se vive nell’accettazione e nell’amicizia, impara a trovare l’amore nel mondo.

Con la semplicità di queste parole, la risposta si fa immediatamente chiara: i bambini, ma anche gli adulti aggiungerei, assorbono il contesto, costruiscono la propria storia sulla schiena dei vissuti.

E così accade una cosa semplice, ma non banale: all’interno della famiglia, ogni membro della coppia genitoriale chiamato ad educare, tenderà a riversare e trasmettere ai propri figli ciò che ha ricevuto nel suo contesto d’origine: aspetti culturali condivisi da quel gruppo di appartenenza, interiorizzati, rimasticati e rielaborati alla luce del proprio percorso, anche in modo implicito.

Ma non tutti i percorsi sono semplici e lineari e il processo che conduce alla genitorialità è un momento fortemente impattante nella vita di un individuo, che richiede un impegnativo lavoro di ristrutturazione emotiva ed affettiva. Può capitare infatti di arrivare a diventare genitori con grandi irrisolti personali, che si riversano inevitabilmente nella relazione, rendendola difficoltosa: non è qualcosa su cui possiamo non riflettere, non è un lavoro che può essere rimandato o peggio, delegato.

Bisogna fare i conti con le proprie difficoltà, richiedere il giusto sostegno quando questo è necessario e soprattutto tenere sempre a mente la profonda valenza del contesto che offriamo e del modo in cui lo offriamo.

D’altra parte siamo la specie con il processo di crescita più lungo: i nostri piccoli maturano molto più lentamente dei cuccioli di cane o di scimpanzè, e sono dunque esposti più a lungo alle nostre intemperie, come anche al nostro sole.


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