Agere sequitur esse. L'etica dell'iconografo

Agere sequitur esse. L'etica dell'iconografo

In generale il cammino cristiano è un cammino etico, a maggior ragione lo è per coloro che scelgono l'iconografia come via di salvezza e di santità. Per l'iconografo, la fede è l'elemento fondamentale su cui basare la sua arte, che nasce proprio come arte etica più che estetica. Un'arte che aveva come fine di condurre alla salvezza e di mostrare visivamente il giusto comportamento per crescere nella vita spirituale. Quindi l'iconografia non è solo un insegnamento pedagogico nei confronti dei fedeli che contemplano le icone, ma esige dei comportamenti etici e coerenti con il proprio credo, anche da parte degli iconografi che quelle sacre immagini realizzano. Ciò che fa un iconografo non deve essere mai slegato dalla propria fede e dalla propria esperienza spirituale, semmai ne è la conseguenza. L'icona è l'effetto finale, il prodotto della fede e del cammino spirituale dell'iconografo. Senza fede non c'è icona. Pavel Florenskij, in un suo scritto sull'icona, arriva a dire che l'icona è Rublev. L'icona, è la manifestazione visiva e reale della fede di Rublev. E dirà ancora: esiste l'icona della Trinità di Rublev, dunque esiste Dio. Una frase che può apparire paradossale alla nostra mentalità occidentale e moderna, ma che era perfettamente comprensibile a chi ci ha preceduto. Questo modo di pensare l'arte cristiana, come conseguenza della fede di chi la realizza e anche di chi la ammira, è qualcosa che nel mondo occidentale è andato gradualmente affievolendosi nel tempo a partire dalla fine del medioevo, fino a scomparire del tutto già nel rinascimento, quando la distanza tra l'artista e la sua arte è diventata un baratro incolmabile. Per cui un opera d'arte religiosa veniva commissionata ad un artista unicamente sulla base del criterio tecnico. Si guardava solo alle sue qualità artistiche ma non si badava affatto che egli fosse un uomo spirituale e vivesse una vita di fede coerente, avesse un comportamento etico cristiano e una sana moralità. Bastava che dipingesse bene, poi il resto era affare suo. Poteva anche essere un assassino, un usuraio, un deliquente, al committente interessava solo che facesse bene il suo lavoro. Questo modo distorto di vivere l'arte, ha prodotto gravi danni. Perchè in realtà, ciò che noi siamo si trasmette sempre a ciò che facciamo, è inevitabile. I latini dicevano: agitur sequitur esse. L'azione, ciò che si fà, è la conseguenza dell'essere, di ciò che siamo. Per cui anche gli artisti nelle loro opere trasferiscono sempre, anche involontariamente, loro stessi, i loro pensieri, sentimenti, ragionamenti, ricordi, esperienze e vita. Non esiste una pura oggettività nell'arte, c'è sempre anche una parte di se e del proprio visssuto. Se uno vive una vita contratria alla fede, lontano da Dio, nel suo disprezzo, senza regole morali, come si può pensare che possa realizzare un opera d'arte sacra? Un opera certo la può fare, ma non avrà davvero nulla di sacro, perchè Dio non c'è, c'è solo l'io, umano ed egoistico. Per cui noi assisteremo, dopo il rinascimento, ad un'arte collocata dentro le chiese e con la pretesa di esprimere la fede dei cristiani, ma realizzata da artisti che spesso non avevano nulla di cristiano, e che nella loro vita testimoniavano ben altro rispetto al Vangelo. A questi personaggi si è dato il mandato di comunicare la fede attraverso l'arte, ma una fede che loro non conoscevano e non apprezzavano. Ovviamente generalizzo, ci sono stati anche grandi artisti che erano credenti e praticanti. Di fatto però il criterio di scelta dell'artista non era quello della fede e dell'etica. Totalmente opposto risulta il discorso nell'iconografia, e non è un caso forse che la perdita dell'iconografia canonica in occidente sia coincisa con l'allontanamento del mondo occidentale da Dio. Il rinascimento che tanto viene vantato, per ciò che ha creato nel campo dell'arte, è però, da un punto di vista etico e di fede, uno dei periodi più depravati e disordinati che la Chiesa abbia conosciuto, forse in concorrenza con quello attuale. L'arte cristiana che è venuta dopo è stata l'ovvia conseguenza, un'arte sempre meno sacra e sempre più mondana. Quando in occidente si è incominciata a privare l'arte del suo carattere liturgico e sacramentale, sminuendola fino a ridurla ad una semplice decorazione, dipendente dal soggettivismo e dall'arbitrio dell'artista, il quale poteva dunque anche non essere cristiano e vivere senza o contro i principi etici cristiani, l'arte ha cessato di essere un mezzo di comunicazione della fede ed ha assunto una finalità unicamente estetica. Nell'oriente cristiano e nell'arte iconografica invece non si è mai separato l'artista dalla sua arte, considerando la fede dell'iconografo, il mezzo fondamentale per trasmettere la fede della Chiesa attraverso le icone da lui dipinte. Non può dunque esistere una vera icona se non realizzata da un iconografo che vive la fede cristiana, secondo i suoi insegnamenti e i suoi principi. Nella Chiesa di rito orientale, quello etico è uno dei criteri fondamentali per poter ammettere un'icona alla venerazione dei fedeli. All'iconografo si richiedeva una vita integerrima, un cammino cristiano esigente e alto, un'esperienza non solo artistica, ma spirituale, profonda e sapiente. Non poteva trasmettere agli altri la fede se non la viveva. Tutto questo era valutato prima di ammettere un'icona ad essere venerata dai fedeli. Il ruolo dell'iconografo era preso molto seriamente, non bastava il talento ma si esigeva una condotta di vita santa e coerente. L'iconografo doveva purificare la propria anima nell'ascesi, nel digiuno e nella preghiera. Prima di dipingere un'icona si preparava spiritualmente anche per lunghi periodi. Il suo non era un mestiere o un passatempo ma una vocazione e una missione a cui consacrava la vita e perciò si sottoponeva a rigide regole. Il Concilio di Mosca del 1551 ordinava: "L'iconografo si rivolga al padre spirituale di frequente, viva in digiuno, penitenza e astinenza, con mente umile e senza nessuno scandalo nè manacanza di decoro e con somma attenzione dipinga l'immagine di nosto Signore e della sua purissima Madre"; un altro Concilio un secolo dopo preciserà: "L'iconografo sia ricolmo di umiltà, dolcezza e pietà, fugga le vanità, si comporti pacificamente, ignori l'invidia, non si ubriachi, non rubi e soprattutto osservi con scrupolosa cura la povertà spirituale e corporale". Per farvi capire quanto la vita spirituale dell'iconografo sia importante per la sua arte, vi racconto un episodio. Parlando della vita del beato monaco russo e iconografo, Andrej Rublev e del suo confratello Daniil, un cronista dell'epoca scrisse: "Era così grande la loro virtù e il loro zelo nel digiunare e praticare la vita monastica che furono giudicati degni della grazia divina. Non si dedicavano mai alle distrazioni terrene ma elevavano senza sosta il loro spirito e il loro pensiero verso il mondo divino e volgevano costantemente il loro occhio sensibile verso le icone dipinte, a tal punto che in occasione della festa della radiosa Resurrezione di Cristo, si sedevano su una sedia di fronte alle divine icone e le contemplavano senza mai staccare gli occhi da esse, cosa che li riempiva della gioia e dello splendore divini." Possa il Signore concederci di fare la stessa esperienza! 

Michele Antonio Ziccheddu

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