C’è una generazione che ha imparato presto a fare tutto “nel modo giusto”: studiare, laurearsi, trovare un lavoro, essere indipendente. Ma dietro la facciata dell’efficienza e dell’adattabilità si nasconde spesso una fragilità silenziosa, un senso di insicurezza che attraversa i giovani adulti di oggi.
È una fragilità che non si mostra con clamore, ma che si avverte nei loro sguardi stanchi, nella paura di non essere “abbastanza”, nella difficoltà a costruire legami autentici e stabili.
Come psicoterapeuta, ogni settimana incontro ragazzi e ragazze tra i 25 e i 33 anni. Mi colpisce la loro intelligenza, la capacità di analisi, la voglia di capire. Ma anche il peso enorme che portano sulle spalle: la paura di deludere, il confronto costante con gli altri, la difficoltà a sentirsi all’altezza della vita.
Le relazioni: tra bisogno d’amore e paura di perdersi
Giovanna ha 30 anni. È una giovane donna brillante, empatica, capace di costruire legami intensi. Ha avuto relazioni con uomini e donne, e in ognuna di esse ha vissuto un’alternanza faticosa tra dipendenza e controllo: a volte si annulla, a volte diventa la parte forte, quasi materna.
Sul lavoro e nello studio è impeccabile: si è presa per mano e ha raggiunto ogni obiettivo che si era data. Ma quando si tratta di cuore, tutto vacilla.
«Non so, Roberta… forse sono pazza io», mi dice un giorno.
Dietro queste parole non c’è follia, ma smarrimento. Giovanna, come molti altri, ha imparato a misurarsi con il mondo attraverso il successo e la competenza. Tuttavia, nel campo affettivo, il controllo non basta: amare significa affidarsi, e per chi è cresciuto in un contesto incerto, o con una madre iper controllante pronta a chiedere di esaudire i suoi desideri,l’affidamento può sembrare pericoloso.
È come se questi giovani fossero bravissimi a gestire la complessità esterna — lo studio, il lavoro, i cambiamenti — ma meno attrezzati ad affrontare la complessità interna: la vulnerabilità, la paura di non essere amabili, il rischio di perdere sé stessi nell’altro.
Il peso delle aspettative: “devo farcela, per forza”
Valentina ha 31 anni, è una forza della natura. Determinata, creativa, apparentemente indistruttibile. Ma la sua energia si consuma nel tentativo di portare avanti l’azienda di famiglia.
«È dura, Roberta. Aspetto tempi migliori… ma il mio ufficio è ormai un covo di lacrime.»
La sua è la fatica di chi sente su di sé il compito di non deludere nessuno.
I giovani adulti di oggi vivono spesso in equilibrio tra due poli opposti: da una parte il desiderio di realizzarsi, di affermare la propria identità; dall’altra, il senso di lealtà e di responsabilità verso la famiglia, i genitori, i sogni che altri hanno proiettato su di loro.
Non è un conflitto nuovo, ma oggi si intreccia con un contesto socioeconomico instabile, competitivo, dove “andare avanti” sembra una corsa senza sosta. Molti giovani interiorizzano un messaggio implicito: non puoi fermarti, non puoi fallire, non puoi chiedere aiuto.
E così la stanchezza cresce, insieme alla paura di non farcela. Non solo, ma anche e sicuramente non da ultimo , al poco spazio che sentono di avere qualora desiderassero un figlio.
Il disvalore e la vergogna del ritardo
Poi ci sono Marco, Anna, Matteo…
Tutti vicini alla laurea, ma con qualche anno di ritardo. E quel ritardo, che un tempo era un evento normale nel percorso universitario, oggi diventa una ferita profonda.
«Tutti gli altri si sono già laureati», «non lo dirò a nessuno», «non c’è nulla da festeggiare». Le loro parole raccontano una vergogna diffusa, quasi un senso di colpa per non essere arrivati “nei tempi giusti”.
Viviamo in una società che misura il valore delle persone sulla base della performance: quanti anni hai, cosa hai ottenuto, quanto sei produttivo. Ma la crescita non è una linea retta. Ogni percorso ha i suoi inciampi, le sue soste, le sue deviazioni. Quando il tempo personale non coincide con il tempo sociale, questi ragazzi si sentono esclusi, inadeguati, soli.
È come se fosse diventato difficile credere che si possa sbagliare, ritardare, cambiare idea.
Eppure, è proprio nella libertà di rallentare che si costruisce la maturità emotiva.
La solitudine delle nuove generazioni
Un altro tema che emerge spesso in terapia è la povertà della rete relazionale.
Quando chiedo ai ragazzi chi hanno vicino nei momenti difficili, quasi sempre mi rispondono con un elenco di assenze:
«Chi è partito per l’Erasmus, chi si è trasferito per lavoro, chi è sempre troppo impegnato…».
La globalizzazione, la mobilità, la vita digitale hanno ampliato le possibilità, ma anche disperso le reti di sostegno. I legami sono più fragili, intermittenti. Ci si sente costantemente connessi, ma raramente davvero “in contatto”.
Molti giovani adulti vivono una solitudine silenziosa, fatta di chat piene ma di case vuote, di relazioni intense ma brevi, di amicizie a distanza che non sempre riescono a contenere il peso dei momenti difficili.
In terapia, il lavoro spesso parte da qui: ricostruire una rete, ridare valore alla vicinanza, al corpo, alla parola condivisa.
Amo questi giovani e li accompagno nel loro cammino: perché trovino la strada che li chiama, inseguano i loro desideri con fiducia e lascino cadere ciò che non appartiene loro. Che possano riconoscersi nella propria bellezza, senza confronti, sapendo che — come qualcuno ha detto — in superficie sembriamo diversi, ma più si scava, più ci si accorge che siamo uguali: nelle paure, nei sogni, nel desiderio di essere amati per ciò che siamo.